venerdì 9 settembre 2011

"PILLOLE"


BRIDESMAIDS - LE AMICHE DELLA SPOSA
Sinceramente mi stupisce e preoccupa il successo che questo film ha avuto in patria. Ogni scena del film è trita e ritrita e si prevede circa con dieci minuti di anticipo, le uniche fonti di umorismo provengono da un donnone corpulento che ricorda fin troppo l'Alan di Una notte da leoni, i pochi personaggi che potevano regalare tante risate vengono messi sullo sfondo e dimenticati (Rita/Wendy McClendon, sessualmente frustrata e madre di tre adolescenti, e Becca/Ellie Kemper, idealista sposina senza preoccupazioni). L'umorismo è al livello dei nostri cinepanettoni, tra diarrea evacuata nel lavandino e gente che si vomita in testa. Ma soprattutto: la protagonista (Kristen Wiig, anche sceneggiatrice e dunque totalmente responsabile della noia del film), è poco interessante, non ha scopi, motivazioni, si comporta in maniera detestabile con tutti ed è completamente inattiva all'interno della storia, con gli eventi che le accadono intorno. Non sarebbe stato un film migliore se visto dalla prospettiva dell'acida ma simpaticissima perfezionista interpretata da Rose Byrne? Inoltre '130 minuti sono veramente troppi per un film di questo tipo.
COME AMMAZZARE IL CAPO E VIVERE FELICI
Quella che poteva venire fuori come una deliziosa e cattivissima commedia nera è in realtà un innocuo ma piacevolmente divertente film comico. Le situazioni messe in scena dai tre protago
nisti Bateman, Day e Sudeikis sono spesso esilaranti nonostante la trama e il suo svolgimento siano veramente elementari. Divertentissimi i tre boss da uccidere, tra Jennifer Aniston spassosa ninfomane, Colin Farrell cocainomane decerebrato e Kevin Spacey che fa...Kevin Spacey. I tre protagonisti sono ben scelti: a Jason Bateman il dipendente/impiegato perennemente impegnato riesce perfettamente, Sudeikis replica il suo ruolo di Libera Uscita e Charlie Day è una vera sorpresa, protagonista delle scene più esilaranti e demenziali del film, un talento comico nato.

FRIGHT NIGHT - IL VAMPIRO DELLA PORTA ACCANTOIn questi anni in cui i vampiri imperversano tra film, libri e serie televisive grazie al discutibilissimo successo della saga "letteraria" di Stephenie Meyer, era solo questione di tempo prima che Hollywood si ricordasse di quel piccolo cult anni '80 che è Ammazzavampiri e decidesse di proporci un ennesimo decerebrato remake per giovani. Ho il piacere di dire che stavolta il fallimento è stato evitato: Fright Night è un piacevolissimo aggiornamento, è fresco e divertente, non sa di già visto, e dell'originale conserva tutta la leggerezza, citandolo con piccoli omaggi. Colin Farrell si diverte parecchio nel ruolo di vampiro assetato di sangue, e diverte anche il pubblico. Nel ruolo di Charlie, Anton Yelchin si conferma un giovane attore parecchio convincente, uno Shia LaBeouf 2.0 in versione simpatica e carismatica, con madre molto presente interpretata da Toni Collette, mentre l'attrice inglese Imogen Poots sbarca negli Stati Uniti nel ruolo della sua ragazza. L'intuizione geniale del film è stata di sostituire il personaggio dell'attore a là Peter Cushing Peter Vincent (interpretato, nell'originale, da Roddy McDowall) con uno mago cialtrone di Las Vegas a là Criss Angel interpretato da un fantastico David Tennant, anche se in questo modo è stata abbandonata tutta una riflessione su un certo tipo di cinema, che era un pò il punto di forza dell'originale. Questo rifacimento si concentra più che altro sull'amicizia e su come le persone cambino, situazione esplicitata tramite l'amico abbandonato da Charlie, interpretato da McLov...cioè, Christopher Mintz-Plasse (condannato, come Michael Cera, all'eterno ruolo di nerd). Altro elemento pregevole è il non aver abbandonato sangue ed effetti gore per attrarre un pubblico di famiglie, ed essendo il film prodotto dalla Disney questa era una grossa preoccupazione: invece l'horror (tra sangue, teste e arti mozzati) non manca.

sabato 6 agosto 2011

Rusty il selvaggio


Il rumble fish, anche noto come Betta splendens, è un pesce siamese noto per la sua aggressiva territorialità. In un acquario, due pesci maschi di questa specie si ucciderebbero a vicenda in brevissimo tempo. Rumble Fish è anche il titolo di questo film (banalmente tradotto in terra italiota con Rusty il selvaggio), girato da Francis Ford Coppola nel 1983, e ispirato al romanzo di S.E. Hinton, autrice di The Outsiders, anch'esso trasformato in film dallo stesso Coppola. Se quest'ultimo si qualifica come semplice e fin troppo nostalgico dramma giovanile, Rumble Fish è invece un opera complessa ed espressiva, in grado di racchiudere in sè l'eterno dramma della teen angst senza risultare banale o moralista.
La storia di due fratelli: Rusty (Matt Dillon), adolescente sbandato che rimpiange un periodo che non ho mai vissuto, quelle delle guerre fra bande in un tempo "d'oro" non ancora inquinato dall'eroina, il cui più grande sogno è quello di essere come il suo "mitologico" fratello maggiore, The Motorcycle Boy (notare l'assenza di nome proprio, che non viene mai pronunciato), che proprio di una banda era l'indiscusso e amatissimo leader. Quest'ultimo è appena uscito di galera e ora si aggira senza meta, spezzato come un Dio caduto, stufo di essere idolatrato e ridotto all'ombra di sè stesso, uno stato d'animo che Rusty, così voglioso di essere amato, non riesce proprio a comprendere.
Al centro di Rumble Fish vi è una eterna ed instancabile ricerca di sè stessi alla scoperta della propria autentica natura, ma soprattutto la lotta interiore che si svolge nel mentre di questa ricerca. Rusty cerca un'identità, e "ricalcare" il comportamento del fratello gli sembra l'unica soluzione; mentre The Motorcycle Boy è stufo della sua immagine pubblica di "Robin Hood e Pifferaio magico" e cerca di adattarsi ad una vita sedentaria, ostacolato da una probabile tossicodipendenza. I due fratelli saranno destinati a non comprendersi mai se non nel drammatico finale, e la tagline del poster del film riassume perfettamente questa dinamica: Rusty James can't live up to his brother's reputation. His brother can't live it down, che sintetizza come Rusty voglia essere suo fratello, mentre quest'ultimo non voglia essere sè stesso.
La forma stessa del film è ideata per ricalcare le percezioni dei protagonisti: il bianco e nero rappresenta il daltonismo di The Motorcycle Boy. Le uniche note di colore appaiono nel finale e in una scena particolare in cui due fratelli si recano in un negozio di animali e osservano i pesci siamesi del titolo, uniche forme a colori in un mondo in bianco e nero. Come i due pesci, anche i ragazzi del quartiere si ucciderebbero in brevissimo tempo se ne avessero l'occasione.
Nello stile del film si amalgamano influenze distantissime: la fotografia e i grandangoli rimandano a Welles, gli ambienti e le inquadrature sghembe all'Espressionismo Tedesco, insomma le influenze sono innumerevoli e tutte ben celate. Contribuiscono all'atmosfera la discordante colonna sonora reggae di Stewart Copeland, e i combattimenti tra bande coreografati a mò di balletto, in cui il realismo è volutamente assente.
Il cast presenta Matt Dillon e Mickey Rourke in interpretazioni da antologia: aggressivo, rabbioso, e infantile il primo; ferito, stordito e "(un)comfortably numb" il secondo. Ottimo Dennis Hopper nel ruolo del distante padre alcolista dei due. E' interessante giocare a riconoscere giovanissimi attori che oggi figurano nel pantheon di Hollywood: da Diane Lane al compianto Chris Penn, da Laurence Fishburne a Nicholas Cage...
Rumble Fish è uno dei migliori film di Francis Ford Coppola, e si fatica a comprendere le stroncature che ricevette alla sua uscita. Troppo poco Hollywoodiano?

lunedì 27 giugno 2011

127 Ore


Blue John Canyon, Utah, Aprile 2003: lo scalatore Aron Ralston precipita lungo una parete di roccia. Il suo braccio destro è rimasto schiacciato e bloccato da un grosso masso dal peso di 400 chili, che gli impedisce ogni movimento. Aron rimarrà nel canyon per 127 Ore, arrivando a prendere una drastica decisione pur di sopravvivere.
Il regista premio Oscar Danny Boyle e il suo sceneggiatore Simon Beaufoy si sono ispirati a questa vera storia di sopravvivenza e forza di volontà per mettere in scena una pellicola frenetica e nervosa. Nonostante l'ambientazione statica che sembrerebbe impedire ogni guizzo artistico, il team dietro al film è riuscito a trasformare il tutto in "an action movie with a guy who can't move". Merito anche della titanica performance di James Franco, che riesce a rappresentare perfettamente uno scavezzacollo come Ralston, che anche dopo la drammatica esperienza nel canyon non ha mai smesso di praticare escursionismo. Una prova aiutata anche dal fatto che il protagonista si trova da solo durante quasi tutto il film, a parte i quindici minuti iniziali in cui Aron incontra due belle escursioniste (interpretate dalle splendide Kate Mara e Amber Tamblyn) e qualche rapido flashback che gli ricorda le persone importanti della sua vita. E' molto efficace in questo senso la sequenza dei titoli di testa, che si concentra su folle di fedeli in preghiera, eventi sportivi in stadi ricolmi di pubblico, strade cittadine traboccanti di persone: è fortissimo così il contrasto con la totale solitudine in cui Ralston si troverà poi. Con un solo attore su cui concentrarsi, la regia è libera di girare intorno a Franco, inquadrarlo di volta in volta in primi piani ravvicinatissimi, inscrivendolo in efficaci split screen o coinvolgendolo in piani sequenza elaborati. Tutti procedimenti resi più semplici dall'aver ricreato la spelonca rocciosa in un teatro di posa (in maniera davvero molto realistico), rendendo così molto più semplici gli spostamenti di macchina. Il film descrive un mondo di percezioni, tutto è vissuto attraverso gli occhi del protagonista, dall'inizio alla fine. Funziona ottimamente l'intuizione di riprendere parte delle scene attraverso la telecamera digitale di cui Ralston/Franco è munito: unico strumento per mantenere almeno in parte il contatto col mondo, per raccontarsi, per vivere la propria esperienza attraverso un doppio punto di vista: ciò che è visto con i suoi occhi e ciò che la telecamera riprende con esasperato realismo. Fotografia ed effetti sonori contribuiscono a renderci partecipi dell'Esperienza, che diventa percezione fisica e visiva anche per il pubblico. Vanno lodati i due direttori della fotografia Anthony Mandle ed Enrique Cheriak, sia per come riescono a riprendere paesaggi da mozzare il fiato, che per la maestria con cui dipingono immagini più intime e circoscritte, ed il montaggio frenetico e "videoclipparo" (in maniera positiva) di Jon Harris. La musica di Rahman è efficace, anche se spesso le canzoni scelte risultano molto fuori posto: in questo campo sarebbe stato meglio effettuare scelte più sobrie, visto che spesso si rischia di tirare fuori lo spettatore facendogli ricordare di stare assistendo ad un film.
127 Ore è un film davvero grandioso, era impresa ardua rendere entusiasmante una storia così ed il risultato è davvero dei migliori. Non una storia da shock facile, ma una celebrazione della vita e della volontà di sopravvivere tentando il tutto per tutto.

sabato 25 giugno 2011

Thumbsucker - Il succhiapollice



Nel 1969, anno di importanza enorme per il cinema, Easy Rider divenne il primo film indipendente a sbarcare con un certo successo nei cinema di tutto il mondo, raggiungendo subito il grado di cult istantaneo. Dopo che autori come Tarantino, i fratelli Coen e Spike Lee hanno reso il cinema indipendente capace di ottenere successi pari quello mainstream, anche le grosse case di produzione hanno fondato delle divisioni indipendente: la più importante delle quali è sicuramente la Fox Searchlight. Ad essa va il merito di essere riuscita a sdoganare questo tipo di cinema definitivamente, ma purtroppo la stessa si è resa colpevole di un'uniformazione generale: la parola indie è diventata sinonimo di personaggi dolci e un pò strambi, una sciropposa colonna sonora acustica e tante lacrime miste a risate. Da semplice indicazione "economica" della provenienza del film, a vera e propria qualifica di genere. Se spesso questa formula funziona alla grande regalando pellicole sincere (come Juno, Little Miss Sunshine, 500 giorni insieme), altre volte crolla miseramente su sè stessa dimostrandosi assolutamente inadeguata. E' appunto il caso di un film come Thumbsucker, film del 2005 che narra la storia di Justin, timido liceale chiuso in sè stesso, che sta provando a liberarsi da una dipendenza molto particolare: succhiarsi il pollice, appunto. Vi riuscirà grazie ad alcuni farmaci prescritti da un brillante professore, ma questo servirà solo a fargli cambiare tipo di dipendenza rendendolo iperattivo. L'unico modo per uscire da questo loop infinito è risolvere alcune questioni in sospeso nella sua vita...
Non c'è molto da raccontare su questo film: la sceneggiatura si barcamena tra la volontà di creare situazioni stravaganti (quirky) e quella di spiegare, male, il perchè della condizione in cui si trova Justin. Non c'è un momento in cui crediamo che la storia di questo ragazzo sia credibile: durante la pellicola viene accennato come il pollice sia un simulacro del seno materno, ma il rapporto del ragazzo con la madre non è chiaro: a tratti sembrano attaccatissimi, ma a metà del film pare che lo sceneggiatore si sia completamente dimenticato di questo, visto che Justin inizia a credere, basandosi su niente, che lei abbia una relazione extraconiugale. La rivalità col padre, anch'essa non sviscerata a dovere, è forse la ragione a cui attribuire il tutto, o almeno così siamo portati a credere. Il fatto è che sono talmente tanti i temi ad essere spalmati a forza in appena un'ora e mezza di film, da non potersi concentrare a dovere su nessun elemento: il rapporto difficile di Justin con i genitori, la sua eterna dipendenza da qualcosa, una velata critica dei gruppi di dibattito scolastico a cui il ragazzo partecipa, la rivalità con uno strambo dentista new age, e persino la relazione con una procace compagna di classe (altro personaggio appena accennato) che comprende scene di sesso bendato. E alla fine, dopo tutta questa concentrazione di elementi. tutto si risolve in un miserrima lezione sull'essere sè stessi nonostante tutto. Peccato perchè gli altri elementi non sono certo da buttare: la regia di Mike Mills è ottima nel suo minimalismo, e incornicia con grazia i volti e le interpretazioni dei protagonisti; la fotografia è particolarmente fredda e realista per un film di questo tipo, con delle belle scene oniriche virate sul rosa; e anche le interpretazioni sono di ottimo livello. L'interprete principale, Lou Taylor Pucci, è carismatico e riesce ad esprimere molto più di quanto sia scritto nello script, e l'eternamente sottovalutato Vincent D'Onofrio rende memorabile il ruolo del padre distante. Perfetto anche Vince Vaughn nel ruolo di un professore combattuto tra la sua serietà professionale e la voglia di essere accettato come un amico dai suoi studenti, forse uno dei migliori lati del film insieme al dentista hippie Keanu Reeves, la cui inespressività è stavolta fondamentale per mettere in scena questo stravagante personaggio. La bella e brava Kelli Garner (vista nel ben superiore Lars and the real girl) può poco con una parte scritta coi piedi il cui arco caratteriale è francamente incomprensibile e totalmente inutile all'economia del film.
In sostanza, Thumbsucker può contare su una regia ispirata e delle ottime prove attoriali, ma la pellicola riesce ad esprimere ben poco se non noia e confusione. La parola da usare è: 'indie'pochezza.

sabato 18 giugno 2011

Libera Uscita


Peter e Bobby Farrelly: il tipo di registi con un posto fisso a Hollywood, perchè non interessati a rischiare. Basta prendere qualche comico ben rodato (Carrey, Stiller, Jack Black o, come in questo caso, Owen Wilson), inserire una serie di situazioni da gag sicura e tirare dentro anche qualche bella ragazza pronta a mostrarsi poco vestita (basta che non siano le attrici protagoniste, ovviamente). Libera Uscita, in originale il ben più efficace Hall Pass, - termine ben noto ai collegiali statunitensi - rientra perfettamente in questo esempio.
L'intreccio è dei più comuni: due uomini sposati ossessionati dal sesso ottengono dalle esasperate mogli una settimana "di ferie" dal matrimonio, nella speranza che i due sfoghino i loro desideri repressi per poi tornare alla tranquillità coniugale, ben sapendo che tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. La coppia di protagonisti funziona alla grande: c'è Rick (un Owen Wilson insolitamente contenuto), riservato, calmo, innamorato, ma i tanti anni di matrimonio hanno ormai spento ogni scintilla di passione sia in lui che in sua moglie, e poi Fred (Jason Sudeikis, praticamente un clone sboccacciato dell'Ed Helms di Una notte da leoni) continuamente alla ricerca di nuovi stimoli, che spesso si sfogano sui sedili anteriori della sua automobile quando la moglie tira fuori la scusa del mal di testa.
Il film funziona meno quando vuole concentrarsi su tutto un gruppo di personaggi francamente inutili: Larry Campbell di La vita secondo Jim interpreta esattamente lo stesso ruolo, la coppia di "amici" d'alta società ha l'unica funzione di creare scenette da sitcom vietata ai minori, così come non si comprende la funzione della bella babysitter interpretata dall'inespressiva Alexandra Daddario: dovrebbe creare scompiglio nel personaggio di Wilson, peccato che tutto questa venga solo malamente accennato senza essere risolto.
Ottimo invece il Coeniano Richard Jenkins e molto simpatiche le mogli, per una volta ben sfruttate dalla sceneggiatura, interpretate da Jenna Fischer e Christina Applegate.
In sostanza, Libera Uscita è una buonissima commedia, soprattutto quando si ricorda di essere un bromance, volgare quando deve esserlo ma nemmeno tanto acida e politicamente scorretta come ci aspetterebbe. I due protagonisti ovviamente si dimostrano tutto fumo e niente arrosto, e il finale si risolve nella solita lezioncina morale all-American: va bene andare a letto con tutti, ma quando siete sposati no, eh.
Rimane una certezza: i Farrelly continueranno a fare i film divertenti e piacevoli che hanno sempre fatto e c'è la garanzia di dimenticarli poco dopo la visione, risparmiando spazio per il cervello. Per chi è interessato a ridere ma anche a ottenere qualcosa di più da portare con sè (presente!), ci sono sempre Kevin Smith o Judd Apatow.

sabato 5 marzo 2011

Winter ' s Bone - Un gelido inverno



Un certo tipo di cinema americano e di serie televisive mainstream ci hanno abituati a vedere gli Stati Uniti d'America con un alone patinato e glamour, un paese popolato di bellissimi e bellissime, in cui la cosa più importante è riuscire a realizzare i propri sogni.
In questo contesto sono dunque ben accette pellicole che mettono in scena senza compromessi una realtà che a molti potrà sembrare fuori dal mondo, ma che non è per nulla lontana dalla verità.
Winter's Bone è dunque un raro esemplare di film che vuole rappresentare senza compromessi un'America diversa a cui non siamo abituati, di cui maschilismo, violenza e prevaricazione sono le principali componenti. Una violenza che si traduce nei discorsi dei protagonisti, ammantati di una conflittualità crescente, in cui gli sguardi e i gesti dicono più di mille parole. Un mondo in cui le donne vengono lasciate sole a badare a casa, figli e bestiame mentre i mariti si strafanno, spacciano droga e le abbandonano non appena le prime rughe iniziano a comparire sui loro volti.
Una sorta di noir contadino visto dagli occhi di Ree Dolly, diciassettenne che vive con una madre catatonica ed ha sulle sue spalle i piccoli fratelli. E' alla disperata ricerca del padre, uno spacciatore di meth scomparso dopo aver impegnato la casa di famiglia per pagare la sua cauzione. Forse solo una regista come Debra Granik poteva riuscire a mostrare il personaggio nella sua autentica luce: una ragazza forte che non si fa mettere i piedi in testa, ma mai insopportabile maschiaccio e anzi dotata di una femminilità che potremmo definire "guerriera".
Ree è una ragazza decisa e inarrestabile quando si tratta di dover difendere la sua famiglia, una giovanissima donna che è stata costretta ad abbandonare troppo presto l'infanzia, come sicuramente dovrà succedere anche ai fratelli a cui lei fa in tutto e per tutto da madre. Molto belle ed esplicative le due sequenze in cui Ree insegna loro a cacciare, a scuoiare e cucinare degli scoiattoli. Come in un tempo primitivo non ancora dimenticato, la giovane adulta trasmette la sua conoscenza ai più piccoli, consapevole che presto anche loro dovranno abbandonare giocattoli e spensieratezza per diventare adulti.
L'interpretazione della ventenne Jennifer Lawrence è senza mezzi termini una delle migliori degli ultimi dieci anni, intensa ma mai eccessiva (oggi, in cui si tendono a dare premi ad interpretazioni sempre più estreme, la ritengo una qualità da non sottovalutare), con un'espressività controllatissima: i suoi splendidi occhi azzurri lasciano immaginare in ogni istante i mille pensieri che si affollano nella sua mente, tanto che sembra quasi di leggere un libro. Entriamo nel mondo e nella testa della protagonista attraverso le espressioni dell'interprete invece che con un banale voice over.
Nella fondamentale scena del colloquio con il militare responsabile delle iscrizioni per l'esercito, a cui Ree vorrebbe unirsi col fine di ottenere soldi per salvare la sua famiglia dalla rovina, percepiamo e sentiamo tutti i dubbi e le paure che si celano dentro di lei, ogni dubbio e ogni speranza che crolla come un castello di carte ad ogni parola del suo interlocutore. Per non parlare della scena sul lago, semplicemente da brividi. Anche qui, enorme doloro trasmesso attraverso una gamma di espressioni molto ridotta.
I coprimari non sono allo stesso livello, a parte forse John Hawkes nei panni del complesso e tormentato zio Teardrop, ma ognuno di essi mostra una naturalezza invidiabile e degna di lode. Così come merita una lode il makeup praticamente assente, in modo da evidenziare e incorniciare ancora di più i volti reali dei personaggi, una cosa che molte pellicole oggi dimenticano.
La livida e gelida fotografia fornisce al tutto la cornice ideale, e la scenografia è quasi apocalittica nella sua devastazione e nel suo squallore.
Sembra quasi uscita da un film post-nucleare alla The Road, e invece riproduce fedelmente lo stile di vita dell'altopiano di Ozark, Missouri. Il film è girato nelle autentiche case degli abitanti di quella zona, e molti hanno addirittura prestato i loro vestiti agli interpreti.
Come The Messenger lo scorso anno, Winter's Bone ci riporta indietro al cinema indie di una volta, quello capace di stupire e colpire direttamente allo stomaco, diversamente dai soliti cloni simil-hipster dei pur bellissimi Juno e Little Miss Sunshine.
Una delle più alte vette dell'anno cinematografico passato, un film che ci regala nuovamente un cinema toccante, impressionante, reale.

domenica 20 febbraio 2011

The Dreamers: Impressioni sparse


"Ero diventato membro di quella che in quei giorni era una specie di massoneria, la massoneria dei cinefili, quelli che chiamavamo malati di cinema. Io ero uno degli insaziabili, uno di quelli che si siedono vicinissimi allo schermo. Perché ci mettevamo così vicini? Forse era perché volevamo ricevere le immagini per primi, quando erano ancora nuove, ancora fresche, prima che sfuggissero verso il fondo, scavalcando fila dopo fila, spettatore dopo spettatore, finché, sfinite, ormai usate, grandi come un francobollo non fossero ritornate nella cabina di proiezione."

Difficile esprimersi su questo film senza ripetere cose sentite milioni di volte. Tanti sono i temi trattati dalla pellicola, e avrei bisogno di più visioni per scoprirli tutti, per cui mi limito a dire cosa ho percepito dal mio punto di vista.

1. Libertà, schiavitù e rivoluzione
In The Dreamers il desiderio di libertà porta i protagonisti a rifugiarsi in un mondo fittizio che, paradossalmente, li rende ancora più schiavi: Matthew, giunto a Parigi con la scusa di "dover imparare il francese" ma con la voglia di vivere senza restrizioni, passerà gran parte del tempo chiuso in un appartamento senza contatti con l'esterno; Theo non fa che parlare di rivoluzione ma non ha il coraggio di combatterla, aspettando che gli altri facciano il lavoro sporco; mentre Isabelle non è mai sè stessa, infatti parla e si muove utilizzando solo cose sentite e viste nei suoi amati film. L'unico luogo in cui è libera dalla finzione è la sua stanza da letto, arredata come quella di una bambina e in cui gli altri non possono entrare. Insomma, i personaggi sono dunque imprigionati dal loro stesso desiderio di fuga. La scena finale del mattone che entra rompendo la finestra della casa rappresenta la realtà che fa finalmente ingresso nel mondo dei tre sognatori. Bertolucci ci lascia con un dubbio finale. La violenza è giustificata se riesce a innescare un cambiamento (Theo), oppure l'amore può risolvere ogni contrasto (Matthew)? A noi la sentenza...

2. Il rapporto ossessivo tra Theo e Isabelle
Il rapporto fra i gemelli è stato definito da molti critici un incesto in tutto, tranne che nell'atto sessuale. Io personalmente dissento: è sicuramente un rapporto ossessivo e malsano, ma non incestuoso. I due sono come in simbiosi: vivono insieme, dormono insieme, fanno il bagno insieme. Si considerano come un unicum, per cui quando uno dei due prova piacere fisico anche l'altro si eccita, come se stesse succedendo anche a lui, ecco perchè si costringono l'un l'altro a compiere vari atti sessuali (Isabelle costringe Theo a masturbarsi, mentre lui spinge la sorella a perdere la verginità con Matthew). In una scena Theo sostiene che lui e Isabelle siano gemelli siamesi, cosa impossibile dato che sono di sessi differenti, eppure vediamo sulle loro spalle una cicatrice identica, come se fossero stati separati chirurgicamente. Matthew viene integrato nel gruppo, diviene come un terzo gemello, ma il suo innamoramento verso Isabelle le fa passare meno tempo con suo fratello, che di conseguenza passa una sera con una ragazza: episodio che provoca una crisi in Isabelle, che ha paura di perdere la sua "metà", il suo gemello siamese, senza il quale non potrebbe vivere.

3. Il rapporto con il cinema
Tutto il film è una citazione continua, nonchè un tributo di Bertolucci al cinema: soprattutto quello della Nouvelle Vague su cui si è formato, ma non solo. Inoltre, il cinema è il primo punto d'incontro fra i protagonisti: Matthew, proveniente non a caso dalla California, incontra i gemelli ad una manifestazione di fronte a un cinema di Parigi. Si potrebbe quasi dire che è la New Hollywood che incontra la Nouvelle Vague, non a caso prima fonte di ispirazione per registi come Scorsese, Coppola o Altman...

4. I discorsi comparativi tra Theo e Matthew
Molto interessanti sono i discorsi che i due compiono in due occasioni: nel primo, si discute di Chaplin e Keaton, Matthew preferisce il secondo, Theo il primo. E' un confronto acceso ma amichevole, un confronto pacifico.
Il secondo confronto, stavolta musicale, fra il Clapton di Theo e l'Hendrix di Matthew, diviene uno scontro idelogico, che termina con i due che si urlano addosso.

Gli attori
Concludendo, c'è bisogno di parlare delle fantastiche interpretazioni dei tre protagonisti.
Michael Pitt è al solito ottimo, molto contenuto, mai eccessivo, ma comunque intensissimo. Louis Garrell è fantastico, sembra quasi una versione più cattiva e ossessiva di Jean-Pierre Leaud. Eva Green è perfetta, soprattutto se consideriamo che era alla sua primissima interpretazione. E' intensa, divertente, inquietante, ottima nei suoi sbalzi d'umore. In più mostra una sicurezza da professionista, anche nelle scene di più esplicite ed emozionali: sembra quasi nata per stare davanti alla cinepresa. Dopo le sue pessime prove in Casino Royale e Le Crociate, qui è riuscita a conquistarmi.