giovedì 4 ottobre 2012

Killer Joe




"Killer Joe è la storia di Cenerentola, ma si dà il caso che il principe sia un killer a pagamento". Così William Friedkin descrive il suo ultimo lavoro, che dopo tanti anni lo riporta finalmente a un cinema che conta. Quando lo spacciatore di mezza tacca Chris si indebita con dei malavitosi, d'accordo con padre, matrigna e sorella minore decide di ingaggiare Joe Cooper, un detective della polizia che per "arrotondare" fa il killer a pagamento, per uccidere la madre alcolizzata e far intascare alla famiglia i soldi dell'assicurazione sulla vita. Joe vuole essere pagato in anticipo, e così Chris, sprovvisto di denaro, accetta a malincuore di cedere sua sorella Dottie come caparra sessuale al killer fino al momento in cui potrà pagare. Ma la situazione degenera presto... Violento e grottesco affresco del whitetrash americano da roulotte, pulp fino al midollo ed esilarante nella sua raffigurazione di personaggi talmenti orribili e disgustosi da risultare quasi amabili, Killer Joe è trascinante nel suo cinismo politicamente scorretto, che non risparmia nulla allo spettatore alzando sempre più l'asticella della sopportazione, fino alla estrema esplosione di violenza finale, fatta di sangue a fiotti e polli fritti usati in maniera molto creativa. Cinismo e violenza che vengono però sia stemperati che valorizzati da un ampio e riuscito uso del black humour, che a più riprese ci mostra il film per ciò che è realmente: una commedia nerissima sul fallimento dell'unità familiare, dove si ride di gusto osservando gli abissi di abiezione e degrado a cui i protagonisti sono pronti a scendere. Cappello da cowboy in testa, guanti di pelle neri e pistola alla cintura, quasi fosse un residuato del vecchio West, Matthew McCounaghey regala la prova della sua carriera, lontano di chilometri dai suoi personaggi da rom-com. Folle, perverso e sadico, Joe è un solitario in cerca di un pò di compagnia e stabilità, che non accetta ritardi ed imbrogli e risponde ad essi con violenza inaudita. Il suo amore nei confronti di Dottie non lo redime, ma se possibile lo rende anche più ossessivo nella sua professione. Il cuore autentico del film è dunque rappresentato da questa novella Cenerentola incarnata da una strabiliante Juno Temple: Dottie è l'unico personaggio innocente della pellicola, una sognatrice spinta solo dal desiderio di una realtà migliore e nascosta sotto l'apparenza di una svampita senza cervello. Con la scusa di fare il suo bene, viene usata come un agnello sacrificale per espiare i peccati dei suoi familiari e trattata come una merce di scambio, ma finisce per regalarsi di sua spontanea volontà all'uomo a cui è stata "venduta", vedendolo come unica via di fuga a cui aggrapparsi. In Killer Joe il senso della famiglia tanto caro al mondo statunitense è inesistente: tutti sono pronti a pugnalarsi alle spalle per i loro interessi, ma la loro stupidità gli impedisce di realizzarli e di vedere con chiarezza il quadro completo delle loro scelte, che inevitabilmente si ritorcono contro di loro. Emile Hirsch è perfetto nel rappresentare un giovane spacciatore che si infila in una situazione senza uscita, mentre Thomas Haden Church nei panni del padre è invece un ebete senza discernimento, con l'unico desiderio di stravaccarsi sul divano a tracannare litri di birra davanti alla tv. Completa il quadro una brava Gina Gershon, che interpreta la matrigna Shana, all'apparenza la più dritta della famiglia, e protagonista di quella che è la scena più estrema del film. Grazie alla sceneggiatura di ferro adattata dal drammaturgo Tracy Letts a partire da una sua pièce teatrale, e alla regia stilizzata, ordinata e non invadente di Friedkin, Killer Joe è un crescendo continuo di tensione, un moderno noir con tocchi di western e horror affogati nel grottesco e condito da una violenza che invece appare molto reale: un sapiente mix di generi che non lascia indifferenti, e un pugno nello stomaco (e perchè no, anche un calcio in faccia) al cinema hollywoodiano moderno. Solo William Friedkin poteva riuscirci, e dopo anni di passi falsi, ci si augura che a 76 anni possa finalmente ritrovare la sua strada.

domenica 16 settembre 2012

Ribelle - The Brave



Non c'è che dire, in questi ultimi anni la Pixar ci ha abituati veramente bene, forse anche troppo. La casa di produzione di Emeryville si è dimostrata l'unica (almeno fra quelle statunitensi, altrimenti si rischia di fare un torto alla Aardman o allo Studio Ghibli) capace di confezionare film d'animazione maturi, appettibili sia per il pubblico adulto che per quello dei più piccoli, riuscendo sempre a regalare scenari visionari e personaggi indimenticabili, mostrando un coraggio invidiabile nelle scelte produttive. In un'epoca in cui nei film animati troviamo citazionismo a iosa e battute autoreferenziali, chi si aspetterebbe di vederne uno con protagonista un anziano borbottone che deve superare il lutto per la scomparsa di sua moglie? O un film di fantascienza la cui prima parte è totalmente priva di dialoghi, nonchè ambientata su una Terra ridotta a una gigantesca discarica? La Pixar l'ha fatto, riuscendo a realizzare capolavori perfettamente bilanciati fra intrattenimento e autorialità, cosa che altri colossi rivali come la DreamWorks o la Blue Sky possono solo sognarsi.
Non c'è da stupirsi quindi se Brave venga considerato una delusione, se accostato a capolavori quali Up, Wall-E o il più recente Toy Story 3. Dopo lo sperimentalismo dei lavori passati, il nuovo film di casa Pixar prende uno degli intrecci tipici dei classici Disney del passato: una principessa ribelle che cerca di trovare il suo posto nel mondo ostacolata da un genitore, che compiendo una serie di scelte sbagliate per poi riuscire a sistemare le cose con le sue sole forze, imparerà una preziosa lezione di vita. Ma anche in questo intreccio semplice, il team della Pixar (difficile parlare di singole scelte registiche) riesce ad inserire dei twist che riescono a rendere il tutto meno già visto: innanzitutto, la scelta di ambientare il tutto nelle Highlands scozzesi conferisce una qualità epica e mistica molto apprezzabile, soprattutto grazie all'evocativa e bellissima colonna sonora del sempre ottimo Patrick Doyle, in cui abbondano cornamuse, arpe e bodhràn. Secondo poi, la scelta di focalizzare la storia sul rapporto fra la principessa Merida e sua madre, invece di basarsi sul solito contrasto già visto fra figlia e padre: al contrario, in Brave la protagonista ha un ottimo rapporto con la figura paterna, caratterizzata dal suo stesso gusto per l'avventura e difficoltà a seguire le regole. Merida ha paura di vivere conformata alla regole come sua madre sembra essere, sempre attenta al giudizio degli altri o al rispetto delle norme sociali: non ha alcuna intenzione di essere domata, come testimoniano i suoi incontrollabili capelli di fuoco. E' una principessa che ha già scoperto la sua identità, che non ha bisogno di un principe per riuscire a realizzarsi. Un personaggio davvero interessante e ben caratterizzato: combattiva, spensierata e spesso avventata, Merida conquista da subito le simpatie del pubblico.
Sono dunque questi sopraelencati i principali pregi di Brave, insieme al solito lavoro di fino svolto nell'animazione che riesce a rendere emozionanti le splendide ambientazioni del film e a caratterizzare i personaggi in maniera ottimale: oltre alla già citata Merida, davvero gradevole il personaggio del roboante ed esilarante re Fergus, e ben resa anche la regina Elinore soprattutto nei suoi contrasti con Merida (anche se più nella sua forma "trasformazione" che in forma umana), mentre i personaggi secondari avrebbero meritato più attenzione. 
In generale, nonostante tutto sia di alto livello, il film non si sofferma abbastanza su diversi elementi e si percepisce quasi una sorta di fretta nel portare a termine le vicende: un minutaggio più esteso, soprattutto nella parte centrale, avrebbe sicuramente giovato, facendo avvertire un maggiore scavo nella psicologia dei personaggi e nelle loro motivazioni.  Considerando il livello di perfezione assurto da molti dei lavori precedenti, definire Brave un Pixar minore è sicuramente un giudizio azzeccato, ma state pur certi che non si tratta affatto di un insulto.

giovedì 13 settembre 2012

This is England



E' il 1983, e in un piccolo sobborgo inglese il dodicenne Shaun, che ha da poco perso il padre nella Guerra delle Falklands, passa le sue giornate in solitaria, trovando un momentaneo sollievo dalle prese in giro dei coetanei in passeggiate in riva al mare e giri in bicicletta. L'ultimo giorno di scuola, tornando a casa dopo l'ennesima rissa con un compagno, Shaun si imbatte in un gruppo di giovani skinhead, guidati dal simpatico fanfarone Woody: i ragazzi lo accolgono presto nella banda, e Shaun sembra aver finalmente trovato il suo posto in un mondo fatto di musica ska ad alto volume, tuffi in piscina, Doc Martens ai piedi e camicie a scacchi coloratissime. Inizia addirittura una buffa relazione con l'eccentrica new romantic Smell, molto più grande di lui ma affascinata dai suoi modi gentili e dalla sua intraprendenza. Proprio quando tutto inizia ad andare per il meglio, Combo, ex leader del gruppo appena uscito di galera, si ripresenta portando con sè l'ideologia nazionalista imparata durante gli anni di carcere. Si crea così una scissione fra Woody e Combo: Shaun, sul quale le idee di quest'ultimo fanno subito presa anche a causa della recente scomparsa del padre, diventa il prediletto di Combo, e il cammino di odio e prevaricazione da lui intrapreso gli cambierà la vita.


This is England è prima di tutto un film autobiografico per Shane Meadows, che in gioventù si trovò a vivere esperienze simili a quelle affrontate da Shaun. Ma è anche un'accurata descrizione del Regno Unito sotto il governo di Margaret Thatcher, e un ritratto dettagliato della situazione dei giovani in quegli anni. In particolare, viene descritto un momento di svolta per la cultura skinhead, ossia la divisione fra i membri pacifici amanti della musica ska e reggae, e quelli nazionalisti e razzisti, che ne adottarono l'immagine modificandone radicalmente l'ideologia.


Ma soprattutto, attraverso il personaggio di Combo, interpretato magistralmente da un monumentale Stephen Graham, Meadows porta in scena un Inghilterra spezzata, uscita da poco dal conflitto delle Isole Falkland, un paese senza direzione, in cui il razzismo e l'odio nascono dal di dentro e si mostrano come elemento distruttivo: "This is England!" afferma fieramente Combo, e l'unico modo per gridare la sua identità di inglese puro al cielo è quello di negare una possibile identificazione e integrazione agli estranei/stranieri, vomitando veleno e violenza su di loro solo per poter rimarcare la sua appartenenza a qualcosa, perchè senza di essa non si sentirebbe parte di nulla. Il messaggio di odio che ripete ad oltranza sembra una filastrocca imparata da un bambino, nemmeno per un attimo si legge un briciolo di convinzione nelle sue parole. Sarebbe stato troppo semplice mostrare una ridicola macchietta detestabile, si è preferito invece portare in scena un personaggio stratificato, di cui osserviamo con orrore le azioni compatendolo e comprendendolo allo stesso tempo, ma senza per questo essere portati a giustificarlo. Il personaggio funziona benissimo in relazione a quello di Shaun, ben interpretato dall'esordiente Thomas Turgoose: da brividi uno dei momenti della pellicola, in cui mentre Combo minaccia con un coltello un ragazzo pakistano colpevole soltanto di giocare nella "zona sbagliata", la macchina da presa inquadra per pochi secondi il volto estasiato di Shaun, talmente plagiato dai discorsi di Combo da essere entrato totalmente nel suo modo di vedere le cose. Si mostra come le ideologie estremiste abbiano facile presa sulle menti più deboli e influenzabili, e diventino per loro un meccanismo di difesa più che una dottrina in cui credere fermamente.


Meadows, coadiuvato dal cosceneggiatore Paddy Considine, riesce a creare un gruppo di personaggi unico: da Woody, quasi incapace di provare sentimenti negativi, alla sua ragazza Lol, una figura materna che fa da collante per il gruppo, per arrivare al silenzioso e pacato Milky, unico membro di colore del gruppo e personaggio fondamentale per delineare le anomalie presenti in Combo, all'esilarante Smell, interesse amoroso di Shaun: i loro imbarazzanti attimi "romantici" sono alcuni dei momenti più divertenti e sinceri di tutto il film. La regia si concentra sui volti degli interpreti con primi piani strettissimi, che evidenziano ogni piccola espressione, facendo ricorso a ralenti scorsesiani in cui i movimenti dei personaggi avvengono al ritmo di pezzi ska, punk e reggae dell'epoca. Il tutto, con uno stile di ripresa realistico che rimanda al cinema di Ken Loach e Alan Clarke, potenziato dagli accenti espressivi con cui gli attori si esprimono. E quando il volume dei dialoghi viene abbassato e si lasciano parlare le splendide melodie al pianoforte di Ludovico Einaudi, si raggiungono vette emozionali di altissimo livello.


This is England è un film delicato nonostante il tema complesso, che trova la forza proprio nel suo intreccio semplice e nell'affetto sentito nei confronti dei personaggi, diretto da una delle voci più sincere del cinema britannico moderno.

lunedì 10 settembre 2012

Dogville



Lars Von Trier è sempre stato un autore controverso, un provocatore nato, spesso definito misogino, egocentrico ed arrogante dai più, ma altrettanto amato da gran parte della critica per la ricchezza sia tematica che estetica delle sue opere. In un film come Dogville sono contenute tutte le definizioni che negli anni sono state attribuite al cinema di questo regista. L'incontro fra Grace, in fuga da un gruppo di gangster, e gli abitanti del villagio di Dogville, che le offrono riparo in cambio di lavoro, è ambientata in uno scarno teatro di posa privo di scenografie, con righe bianche e scritte tracciate in terra a delimitare le strade e le abitazioni della piccola cittadina americana in cui si dipana la storia: l'attenzione degli spettatori è in questo modo libera di concentrarsi solo ed esclusivamente sugli interpreti, e sui significati tematici del film. L'atmosfera pacifica in cui il paesino è immerso nelle prime settimane diviene sempre più opprimente: gli abitanti comprendono il potere che hanno su Grace, e iniziano a sfruttarla in maniera sempre più estrema. L'arrivo dello straniero rivela la vera natura di queste persone, e il piccolo paesino diventa uno specchio per raccontarci il modo in cui Von Trier vede l'umanità: c'è una malignità recondita in ognuno, ed essa aspetta solo un'occasione per emergere. Persino il personaggio del giovane Tom, apparentemente il più comprensivo, non fa altro che sfruttare gli accadimenti per scrivere un romanzo, si dichiara innamorato di Grace ma in realtà vuole solo "possederla". E la stessa Grace, innocente e disposta al perdono, nel devastante finale viene corrotta dalla crudeltà che le è stata inferta, tramutandosi da agnello sacrificale ad angelo vendicatore. Le riprese furono distruttive per gli attori, costretti da Von Trier a rimanere nei personaggi per ore: questa devastazione psicologica ha in tutto e per tutto giovato al film. La Kidman fornisce una delle sue migliori prove nei panni di Grace, così come Paul Bettany come Tom e tutti i caratteristi, da un immenso Stellan Skarsgard a un'intensa e nervosa Patrica Clarkson, per arrivare a Ben Gazzara nei panni di un'anziano non vedente che tenta di nascondere la sua condizione, uno dei personaggi più enigmatici dell'opera. C'è posto anche per una leggenda come Lauren Bacall, che quando compare domina la scena. La macchina da presa a spalla di Von Trier insegue gli interpreti con movimenti rapidi e nervosi, che rendono l'atmosfera opprimente e ammantano il tutto di una crescente tensione. Gli osservatori più superficiali si sono limitati a vedere Dogville come un film antiamericano, cadendo nell'inganno dell'autore, che ha fatto di tutto per farlo apparire tale: Dogville però non rappresenta l'America, ma il mondo intero visto da Von Trier. E, considerando l'immenso potere di cui Grace viene investita negli ultimi minuti, definire misogino il cinema di questo regista è una banalizzazione enorme. 

giovedì 21 giugno 2012

Ginger Snaps



Siamo a Bailey Downs, una cittadina canadese vuota e dal cielo perennemente plumbeo. Da qualche tempo, i cani del vicinato vengono ritrovati dilaniati da una bestia sconosciuta, che lascia i loro corpi sparsi per il paese. Ginger e Brigitte "B." Fitzgerald, due sorelle adolescenti che vivono quasi in simbiosi, entrambe asociali e affascinate dal concetto della morte, hanno fatto un patto: se non riusciranno a lasciare il paese entro i sedici anni di Brigitte, si suicideranno. Una notte, quando Ginger ha con estremo ritardo le sue prime mestruazioni, le due vengono attaccate da un animale simile a un grosso cane, chiaramente attirato dall'odore del sangue mestruale. Si salvano quasi per miracolo: Ginger, però, è stata morsa. Nei giorni successivi il suo carattere subisce cambiamenti che la rendono più aggressiva, rabbiosa e sessualmente attiva, si allontana dalla sorella e comincia a frequentare altre compagnie, ragazzi detestati fin a pochi giorni prima. Gli adulti attribuiscono questi cambiamenti alla pubertà, ma B. inizia a sospettare che la sorella sia stata morsa da un licantropo, e tenta di distillare una cura con l'aiuto di Sam, un giovane spacciatore...
Sotto la dura scorza del film horror, genere a cui comunque appartiene in tutto e per tutto, Ginger Snaps nasconde un ritratto pessimista dell'adolescenza, descritta come un periodo da incubo, da cui è impossibile riemergere senza soffrire, in cui il rapporto con i coetanei somiglia a una lotta, in cui le figure di riferimento sono assenti e non hanno idea di cosa stia succedendo. La licantropia è la metamorfosi perfetta per descrivere i turbamenti ormonali e caratteriali che si sviluppano in questo contensto: si diventa più aggressivi, si ha voglia di fare terra bruciata di tutto ciò che si ha intorno, proprio come succede a Ginger nelle fasi della trasformazione a lupo mannaro. Anche il sesso assume connotati contrastanti, mostrando tutta la confusione che nasce dai primi cambiamenti e dai primi rapporti. Ginger fondamentalmente non ha la minima idea di ciò che sta capitando al suo corpo. Emblematica una esilarante scena in cui le due sorelle si recano dall'infermiera della scuola, tutta moine e falsissimi sorrisi mentre spiega le fasi del ciclo mestruale, discutendo di come cambi la consistenza del sangue durante i giorni. Il sorriso inquietante dell'infermiera contrasta visibilmente con le espressioni confuse e prive di qualsiasi discernimento di Ginger e B.
Quest'ultima, vera e indiscussa protagonista della storia, osserva impotente i cambiamenti di cui Ginger è vittima: tenta di trovare una soluzione per frenare la trasformazione della sorella e distruggere il mostro che vi si cela dentro, ma un riavvicinamento fra le due è ormai impossibile, e la stessa trasformazione si rivela irreversibile. Proprio come non è possibile arrestare il passaggio all'età adulta: un passaggio traumatico che resta impresso, una trasformazione fortemente sofferta. E B. è costretta ad osservare il passaggio della sorella in questa alterità, sapendo di non poterla raggiungere. La sceneggiatura di Karen Walton riesce a rendere credibili tutte le caratteristiche citate, delineandole perfettamente di fronte agli occhi dello spettatore. Le protagoniste sono incarnate alla perfezione da Emily Perkins e Katharine Isabelle: la prima riesce a farci innamorare di Brigitte anche sepolta sotto metri di maglioni, a farci leggere ogni emozione nei suoi occhi grandi e nelle occhiaie scavate. La seconda è una Ginger dalla sensualità aggressiva, a tratti persino ripugnante, ma che cela in realtà tanta vulnerabilità. Ruolo importante anche per Mimi Rogers nei panni della madre: una donna che chiaramente nutre molto affetto per le sue figlie e cerca una connessione con loro, non riuscendo mai a comprenderle realmente. Splendida la sequenza dei titoli di testa in cui le ragazze scattano alcune fotografie in cui si fingono morte: ogni decesso è studiato nei minimi dettagli, e le immagini presentano una qualità evocativa straordinaria, anche grazie alla struggente e inquietante score di Michael Shields. Perfetta la regia di John Fawcett, che con le sue inquadrature sghembe, gli opprimenti grandangoli e la camera a mano molto frequente, riesce a creare un atmosfera unica, intima e malata.

Un grosso difetto sono gli effetti visivi che, visto il basso budget, si dimostrano non poco ridicoli, soprattutto nelle fasi finali della trasformazione. Ma è una mancanza che, pur se molto significativa, si fa perdonare dalle molte altre qualità. Per il modo originale e intenso in cui l'adolescenza viene raccontata con l'horror, un Twilight qualsiasi avrebbe molto da imparare da Ginger Snaps.

giovedì 3 maggio 2012

Elephant




La carriera registica di Gus Van Sant è da sempre stata divisa fra i progetti strettamente hollywoodiani (Will Hunting – Genio Ribelle, il remake di Psycho, Scoprendo Forrester…) e quelli più autoriali e di matrice indie. Elephant, che con Gerry e Last Days compone una trilogia definita Death Trilogy dallo stesso Van Sant, fa parte di questa seconda categoria. Siamo in un "normale" liceo statunitense, durante un "normale" giorno della settimana: seguiamo alcuni studenti durante la loro giornata, ci infiltriamo nelle loro vite come degli osservatori esterni, grazie a un fitto gioco di piani sequenza, che inseguono gli attori per tutta la scuola. Ideale punto d'unione è John, uno studente che viene accompagnato a scuola da suo padre, ubriaco come ogni giorno. Tra gli altri personaggi troviamo Elias, ossessionato dalla fotografia; Michelle, l'emarginata della scuola; e molti altri... La giornata sembra procedere in maniera normale, e ognuno è preso dai suoi piccoli drammi quotidiani: finchè due studenti in tuta militare irrompono nell'edificio armati fino ai denti, con l'intento di fare una strage. Ispirandosi in parte al massacro del liceo Columbine (in cui gli studenti Eric Harris e Dylan Klebold uccisero tredici persone per poi suicidarsi), già soggetto del documentario capolavoro di Michael Moore Bowling for Columbine, Van Sant vuole narrare il modo in cui la società statunitense vede la violenza: ignorandola come fosse il proverbiale "elefante nella stanza" di cui nessuno vuole rendersi conto. Attraverso un meccanismo ad incastro, cronologicamente sfasato, il film pian piano si ricompone come se fosse un puzzle, mostrando il quadro completo della vicenda. Alex, la mente dietro al massacro, nasce da un contesto di soprusi, e subisce le angherie di gran parte dei suoi coetanei. Il seme della strage cresce dentro di lui e diventa l'unica ragione di vita. Emblematica la differenza tra Alex e il suo compagno Eric, chiaramente meno intelligente, che sembra prendere parte alla strage quasi per noia e che infatti viene praticamente "usato" da Alex. Lo stile realista della prima metà del film si abbandona ad una sorta di satira metaforica ed esagerata nella parte finale. Mentre i due ragazzi massacrano i loro compagni armati di mitra, c'è chi passeggia per la scuola senza meta, chi scatta fotografie, mentre John, uscito dall'edificio e accortosi di ciò che sta succedendo, non si cura nemmeno di chiamare la polizia, e lascia la scuola come se niente fosse. Van Sant vuole dirci che la società è talmente abituata alla violenza da non rendersi conto nemmeno della sua presenza: e si ritorna all'elefante nella stanza che dà al film il suo titolo. Anche per genitori e insegnanti è comodo ignorare i problemi, per poi preoccuparsene quando essi si presentano, e magari chiedersi anche come è possibile che si verifichino orrori di questo tipo. Emblematica in questo senso una scena in cui tre ragazze passeggiano per la scuola dopo pranzo, parlando dei loro "problemi". Finchè, entrate in un bagno, tutte e tre, con assoluta normalità, vomitano il loro pasto. Una sequenza che ci mostra uno dei tanti problemi inosservati di questi ragazzi: non solo la violenza dunque, ma anche i problemi legati all'identità, alla discriminazione... Il film non ha un finale, lasciando un'enigmatica conclusione e mostrando, come nella prima scena, un cielo nuvoloso e indifferente al dramma che si è appena verificato: proprio come la società che Van Sant vuole descriverci.

mercoledì 18 aprile 2012

In Bruges

Dopo un lavoro andato male, l'assassino alle prime armi Ray e il più stagionato Ken vengono spediti dal loro boss a Bruges, in Belgio, in attesa di istruzioni. L'opera prima dell'autore teatrale irlandese Martin McDonagh analizza temi quali il peccato e la redenzione, il senso di colpa e le conseguenze delle proprie azioni. Anche i killer hanno un cuore, questa potrebbe essere la frase riassuntiva del film. Le strade acciottolate, i viali da fiaba, e i romantici canali della medievale e “cartolinesca” Bruges, fanno da contrappunto alle angoscie esistenziali dei due protagonisti, in particolare di Ray, che, dopo che il suo primo lavoro è finito in tragedia per ucciso erroneamente un bambino, è devastato dai sensi di colpa e sull'orlo del suicidio. Ken, al contrario, con gli anni è ormai riuscito a trovare una ragione nella sua professione, e prende Ray sotto la sua ala protettiva, tentando di guidarlo per non fargli ripetere i suoi errori. La sceneggiatura riesce a creare un bilanciamento perfetto tra commedia e dramma: in nessun momento si percepisce un cambio di stile repentino o immotivato, ogni svolta è ottimamente calibrata e ragionata. Un'umorismo che spesso sfocia nel grottesco, che “si ciba” di dramma e ironizza su argomenti difficili, fatto di dialoghi surreali ed esilaranti silenzi. In tutto ciò, il dramma dei protagonisti è palpabile, anche grazie alle interpretazioni. Colin Farrell regala la sua prova più matura come Ray: sempre a disagio, costretto, intrappolato, capace di rapide e maldestre esplosioni di rabbia. Il caratterista irlandese Brendan Gleeson regala un Ken pacato e amabile, che si interessa all'arte, il cui rapporto con Ray gronda affetto e rispetto, nonostante i frequenti battibecchi. Esilarante Ralph Fiennes nei panni del boss Harry, un isterico padre di famiglia con un personalissimo codice morale: la sua ingombrante presenza permea tutto il film. Fondamentale importanza è rivestita dalla città di Bruges. Anche grazie alla splendida fotografia, l'atmosfera fiabesca si trasforma spesso in incubo, e le architetture gotiche che la permeano danno una sensazione di inquietudine. Una città che è al contempo inferno, paradiso e purgatorio: forte il simbolismo in relazione al dipinto Il giudizio finale di Bosch, che Ray e Ken osservano in un museo, ricreato dal vero in una delle ultime scene. In Bruges è un'opera di grande spessore con uno stile personalissimo ed espressivo: siamo ansiosi di vedere il prossimo lavoro di McDonagh.

giovedì 5 aprile 2012

Wuthering Heights



Dopo Jane Eyre, tratto dal romanzo di Charlotte Bronte, ho finalmente avuto modo di vedere l'altro “adattamento Bronte” del 2011: si tratta di Wuthering Heights, di Andrea Arnold, basato ovviamente sul celeberrimo Cime Tempestose di Emily Bronte. Laddove il film di Cary Fukunaga non tradiva la sua matrice letteraria nell'adattare Jane Eyre, questo Wuthering Heights fa esattamente l'opposto: il romanzo originario viene utilizzato non come fonte da riportare pedissequamente, ma come una sorte di calderone tematico da cui trarre personaggi, emozioni e sensazioni, tenendo ben presente la diversità tra i due mezzi. Quella tra Heathcliff, trovatello adottato dal proprietario terriero Mr. Earnshaw, e Cathy, figlia di Earnshaw, più che una storia d'amore nel senso classico, è un legame intensissimo tra due esseri soli che si sono trovati, una relazione fisica, violenta, spesso sadomasochistica ma anche pura, delicata, naturalissima, che non è destinata ad esistere a causa della crudeltà e delle convenzioni sociali del mondo in cui vivono. Alla morte di Earnshaw, il figlio Hindley gli succede come capo famiglia, e riduce Heathcliff, di cui è sempre stato geloso, al ruolo di schiavo, vessandolo emotivamente e fisicamente. Quando Cathy accetta di sposare un altro uomo, Heathcliff fugge dalla tenuta. Tornerà diversi anni dopo, per reclamare Cathy ed avere finalmente la sua vendetta.
La Arnold non abbandona i temi caratterizzanti del suo cinema, come la difficoltà di crescere in ambienti difficili, l'incomunicabilità generazionale e la violenza recondita del mondo, sia fisica che verbale. Così come gli espedienti tecnici: il formato 4:3 sostituisce il 16:9, in modo da rendere l'immagine più ristretta e quindi claustrofobica. Le riprese sono effettuate con una macchina da presa a mano che quasi si “incolla” ai volti degli interpreti, restando con loro in ogni momento, mettendo la loro espressività al centro di tutto. La violenza della natura è elemento caratterizzante del film, e rispecchia le emozioni dei personaggi. Nella prima parte, i dialoghi sono ridotti all'osso, la terra è squassata da vento e pioggia, e l’interpretazione dei giovanissimi Solomon Glave e Shannon Beer è fisica, selvaggia, naturale: i due vivono immersi nella natura, armoniosamente in balia degli elementi. Nella seconda, quella del ritorno di Heathcliff, i dialoghi sono ben più presenti, il sole illumina gli ambienti, e James Howson e Kaya Scodelario, interpreti adulti, appaiono sofferenti e forzati nelle loro azioni: entrambi i personaggi sono cambiati, vivono “tradendo” la loro natura, e le eleganti stanze in cui si muovono assumono l'aspetto di una prigione dell'anima. Ottimo il cast: gli interpreti giovanili dei protagonisti sono superiori alle loro controparti adulte, ma tutto il cast è di grande livello. Ad esempio, Nichola Burley è perfetta nell'inscenare l'ingenuità di Isabella, sedotta da Heathcliff: un personaggio che, nonostante le poche scene, resta nel cuore. Facendo “a pezzi” il romanzo originale, ci si mantiene fedelissimi alle emozioni che vi sono rappresentate, riuscendo a realizzare un vero e proprio capolavoro di potenza visiva ed emotiva straordinaria. Manca solo la parte finale, quella della risoluzione e della speranza. Ma la Arnold non intende dare un momento di tregua ai suoi personaggi...

PS: Credo che The Enemy, la splendida canzone dei Mumford & Sons che chiude la pellicola, sintetizzi perfettamente il rapporto fra Heathcliff e Cathy.



And bury me beside you
I have no hope
In solitude
And the world will follow
To the earth down below.
But I came and I was nothing
And time will give us nothing
So why did you choose to lean on
A man you knew was falling?

domenica 1 aprile 2012

Attack the block


La fantascienza è un genere che in questi ultimi anni sta attraversando un periodo di crisi, dovuta principalmente al fatto che le grandi major preferiscano puntare su prodotti facili da incasso sicuro. Proprio per questo, l'unica via per trovare dei prodotti riusciti è cercarli nelle filmografie di paesi che non siano gli USA. Nel 2009, il gioiellino sudafricano District 9 era riuscito a fondere fantapolitica e film d'azione, regalando un piccolo capolavoro e mostrando le autentiche capacità della fantascienza. Il film britannico Attack the Block ha svolto lo stesso compito nel 2011. Il regista Joe Cornish sceglie di raccontare un'invasione aliena in modo assolutamente non convenzionale, ambientandola in un fatiscente sobborgo londinese, svolgendola tutta nel corso di una sola nottata, e scegliendo come protagonisti dei baby-delinquenti dediti a piccole rapine e spaccio di droga: niente di più lontano dal “sense of wonder” che caratterizzava i giovani protagonisti di classici quali ET, Explorers e I Goonies. I ragazzini di Attack the Block prima uccidono e poi si fanno delle domande, e fuggire da alieni ostili non è che un modo come un altro per trascorrere una serata. Nel calderone tematico del film, Cornish mescola numerose influenze e le “frulla” sapientemente insieme: dai classici film di zombie romeriani, a horror più recenti quali The Horde, per giungere ovviamente al Carpenter di Distretto 13 e La Cosa. Non mancano tocchi di umorismo surreale e grottesco, più che prevedibili vista la presenza di Edgar Wright come produttore e di Nick Frost come illustre cameo, entrambi importanti volti del nuovo cinema comico britannico. Il film riesce nell'arduo compito di rendere simpatici cinque ragazzi dediti, come già detto, a una vita criminale: ne emerge un ritratto per nulla semplicistico, che tende a mostrare in più occasioni i reali motivi dietro al loro stile di vita. Merito anche del cast: Moses, leader della banda, è un personaggio pieno di carisma grazie all'interpretazione del giovane John Boyega, sorta di mix fra Denzel Washington e Mike Tyson. Buone prove anche da parte del resto del cast, in particolare Jodie Whittaker nei panni dell'infermiera Sam, che incrocia, suo malgrado, la strada dei protagonisti. Tra i membri della banda spicca Pest, interpretato da Alex Esmail, perennemente armato di botti illegali: ha le battute migliori del film. Ottimi gli effetti speciali, che non abusano di CG ma anzi ricorrono spesso a metodi più tradizionali: gli alieni, giganteschi ammassi di pelo neri come la notte, sono diversi da qualunque cosa vista in passato. Singolare ma vincente la scelta di affidare la colonna sonora al duo elettronico Basement Jaxx: la musica si fonde perfettamente con l'ambiente urbano. Attack the Block è uno dei migliori film del 2011: la pensa così anche Quentin Tarantino, che l'ha inserito nella sua tradizionale Top Twenty dell'anno.

sabato 24 marzo 2012

Take Shelter



Curtis La Forche è un onesto e affettuoso padre di famiglia, lavora come operaio in un cantiere edile ed ha una figlioletta sordomuta a cui lui e la moglie Sam si dedicano con cura e dedizione, nonostante la loro situazione economica non sia certo delle migliori. La loro vita scorre a dispetto delle difficoltà, ma tutto cambia quando Curtis comincia ad essere perseguitato da orrendi incubi ricorrenti, in cui una tempesta di proporzioni bibliche minaccia la sua sicurezza familiare. L'uomo inizia ad essere ossessionato dal proteggere la sua famiglia dalla catastrofe, e per fare ciò iniziare a mettere a repentaglio il lavoro e il suo rapporto con chi gli sta intorno, in una vera e propria discesa (almeno così sembra...) verso la follia. In Take Shelter, il regista Jeff Nichols mescola suggestioni che rimandano al primo Stephen King (impossibile non pensare a Shining) e a svariati episodi biblici, con sprazzi di mitologia greca (Cassandra, profetessa destinata a non essere creduta), per narrare con fortissima potenza visiva ed espressiva la follia che si annida nel quotidiano. Siamo continuamente portati a chiederci se le visioni di Curtis siano deliri schizoidi o presagi inascoltati, poiché entrambe le tesi vengono sostenute a più riprese: dunque, ogni svolta nell'intreccio è assolutamente inaspettata. Impossibile non riconoscere, nei tormenti del protagonista, richiami ad eventi che hanno colpito gli USA recentemente, come l'uragano Katrina che nel 2005 distrusse New Orleans, ma potremo spingerci nel dire che le sue ossessioni rappresentino le preoccupazioni del mondo moderno, devastato dal tracollo finanziario. O magari si vuole semplicemente descrivere la facilità con cui si può essere distrutti dalle proprie paure? Tutti interrogativi che Nichols non chiarisce nemmeno nel maestoso finale, ma con i quali tenta di ingarbugliare ulteriormente il pubblico, rendendolo confuso come i personaggi. Metà della grandezza di Take Shelter deriva indubbiamente dai suoi due attori principali, ovvero Michael Shannon e Jessica Chastain. Il primo, sebbene abbonato come sempre al ruolo di folle farneticante, regala al personaggio le giuste dosi di vulnerabilità e dolcezza, rendendolo un everyman dal quale è impossibile sentirsi distanti: siamo con lui in ogni momento e ne condividiamo le ansie. La Chastain, instancabile attrice rivelazione, è credibilissima e capace di mostrare un ampio range di emozioni contrastanti in pochi secondi. Un'ultima notazione la merita la straordinaria colonna sonora di David Wingo, quasi un Thomas Newman filtrato attraverso John Carpenter.

sabato 17 marzo 2012

Jane Eyre



Continua il nostro breve excursus attraverso alcuni dei film che ho preferito, tra quelli che, nel loro paese di provenienza, sono usciti nel 2011. Oggi scriverò a tocca a Jane Eyre, ennesima trasposizione (la trentottesima!) del capolavoro letterario ottocentesco di Charlotte Bronte, che narra la storia della giovane istitutrice innamorata del misterioso proprietario della magione in cui lavora. Adattato integralmente in svariati sceneggiati televisivi inglesi, principalmente ad opera della BBC, il romanzo non ha goduto di altrettanto rispetto al cinema: ricordo principalmente l'adattamento del '96 firmato da Franco Zeffirelli, che, pur rispettandone l'intreccio e scegliendo come protagonista una Charlotte Gainsbourg piuttosto adatta, non rendeva affatto giustizia all'atmosfera gotica ed inquietante del libro, e soprattutto risultava cinematograficamente nullo e poco incisivo. Tutto il contrario di questa ultima trasposizione, diretta dal filmmaker indipendente Cary Fukunaga, scelto appositamente dalla BBC per prendere le redini del progetto. Fukunaga mostra grande maestria nel girare un film ottimamente in equilibrio tra fedeltà per il materiale di partenza e capacità di realizzare un lavoro in grado di reggersi sulle sue gambe. Con ampie panoramiche e morbidi carrelli, lo spettatore viene avvolto nel racconto, nel desiderio della protagonista di poter vivere indipendentemente, lontana dall'oppressione in cui vive. Grande rilievo viene dato all'ambiente: le brughiere avvolte dalla nebbia e devastate dal vento e dalla pioggia rappresentano bene la solitudine in cui Jane si trova all'inizio del film, e ogni volta che un raggio di sole fa la sua apparizione, ci sentiamo quasi sollevati, privati di un peso, proprio come succede ai protagonisti. Ottimamente scelti i due interpreti principali: Mia Wasikowska è perfetta nel ruolo di Jane, e riesce a dare la giusta dose di forza e vulnerabilità che la parte richiede. Ma il più grande punto di forza della pellicola è sicuramente Michael Fassbender nei panni di Rochester. Lo straordinario attore irlandese, sempre più in ascesa negli ultimi tempi, rende tutte le complessità del personaggio: il suo umorismo spesso crudele e aggressivo, la sofferenza che si nasconde dietro il suo sguardo, i fantasmi che lo tormentano, sono tutti elementi che vengono resi in tutto e per tutto. L'eroe byroniano che popola tanti romanzi inglesi ottocenteschi si mostra qui in tutta la sua forza. Sempre straordinaria Judi Dench, che riesce a rendere memorabile il personaggio della signora Fairfax. Ottime le musiche del nostro connazionale Dario Marianelli, che danno la giusta dose di drammaticità al tutto. Jane Eyre è un film capace di conquistare sia gli appassionati del libro della Bronte, che lo spettatore occasionale. Al prossimo appuntamento, che ci riporterà negli Stati Uniti. 

sabato 10 marzo 2012

Drive



Oggi iniziamo una breve rassegna di alcuni dei migliori film usciti fra il 2011 e questi primi mesi del 2012. Iniziamo con Drive, primo lavoro americano del danese Nicolas Winding Refn, premiato con la Palma d'Oro per la miglior regia all'ultimo festival di Cannes. Sentii parlare per la prima volta di questo film nell'ormai lontano 2010. Lo archiviai subito come uno dei tanti film con macchine veloci ed esplosioni. Non sapevo che al timone ci fosse l'autore del cult Pusher, e che non si sarebbe trattato del solito blockbuster. Tratto dal romanzo di James Sallis, Drive ci assorbe fin da subito nella sua atmosfera, grazie a una fotografia dai toni quasi onirici, a una preponderante estetica anni '80, e a una colonna sonora lisergica in cui abbondano synth e immacolati cori angelici. Le vicende del Driver senza nome interpretato da Ryan Gosling, di giorno stunt, di notte autista da rapina (un ruolo che negli anni '70 sarebbe stato affidato a Steve McQueen) conquistano subito per la loro semplicità: osserviamo un uomo solo e con problemi nel relazionarsi col prossimo, lo vediamo avvicinarsi ad Irene, una giovane donna, e a suo figlio Benicio, e affezionarsi lentamente a loro, un avvicinamento gestito con grazia e silenzi espressivi. Quando Standard, il marito di Irene, esce di galera, Driver decide di aiutarlo: l'uomo ha bisogno di soldi per pagare un debito contratto in prigione. Ma la situazione presto degenera e il nostro Driver passerà da difensore dei deboli a vendicatore senza pietà... Drive è un film che dalla trama potrebbe sembrare banale: impressione che viene smontata fin dall'inizio. I personaggi corrispondono a stereotipi ben rodati, ma nonostante ciò appaiono nuovi, credibili, stratificati. Gosling riesce a caratterizzare il protagonista con un'interpretazione volutamente inespressiva e “sotto alle righe”, che riesce a comunicare molto: Driver potrebbe apparire come un solitario dal cuore d'oro, ma nasconde dentro di sé una violenza che aspetta solo di esplodere, e quando lo fa si mostra in tutta la sua furia, trasformandolo in un inarrestabile angelo della morte. Così come l'Irene interpretata da Carey Mulligan nasconde tante ferite dietro alla sua dolcezza. Grande attenzione è riservata ai personaggi secondari: è impossibile non compatire Bryan Cranston nei panni del mentore Shannon, un uomo ferito dalla vita ma ricco di bontà e umanità; mentre Oscar Isaac, nei panni di Standard, rifugge dal clichè del marito violento e criminale, riuscendo a rappresentare un personaggio positivo, che ha avuto solo la sfortuna di trovarsi nei posti sbagliati ai momenti sbagliati. E quando si hanno grandi caratteristi come Albert Brooks e Ron Perlman, i “cattivi” non sembrano i soliti mafiosi da fumetto. Dietro un'estetica sognante e retrò, Drive nasconde un mondo malato e violento: un mondo di carne, sangue e sudore, in cui non ci si può fidare di nessuno se non di sé stessi. E in cui un personaggio come Driver, pur con tutte le sue contraddizioni, appare l'unico real hero, come recita la bella canzone dei College che fa da sottofondo al finale. Sono d'accordo con il presidente di giuria di Cannes: Drive è il miglior noir del decennio. E se lo dice Bob De Niro, possiamo esserne certi.

giovedì 8 marzo 2012

Lezioni di piano


Jane Campion è sicuramente una degli autori più significativi degli ultimi vent'anni, nonchè, insieme a Kathryn Bigelow, la regista più rappresentativa in un'industria in cui, ingiustamente, il divario tra i sessi non è stato ancora del tutto superato (ma siamo sulla buona strada, basti pensare a nomi come Andrea Arnold, Debra Granik, Kimberly Peirce...). Lezioni di piano è senza alcun dubbio la pellicola più rappresentativa all'interno della filmografia della Campion. Un film che racconta della possibilità di liberarsi e di rinascere (spiritualmente, ma in questo caso anche sessualmente) all'interno di un'ambiente ostile. In questo, la Nuova Zelanda paludosa e inesplorata non è distante dalle ostili brughiere dei romanzi delle sorelle Brontë. L'intreccio è dei più semplici: una donna viene spedita dal padre in una terra sconosciuta insieme a sua figlia, per sposare un uomo mai visto prima, ma si innamorerà di un altro e verrà punita dal marito. A rendere nuovo il tutto è il fatto che la protagonista Ada sia muta dall'età di sei anni, per ragioni che nemmeno lei ricorda. Questo mutismo può essere eletto a simbolo del silenzio a cui il sesso femminile è stato costretto per secoli, e all'impossibilità di espressione a cui le donne erano ridotte nell'epoca vittoriana in cui si svolge il film. Non è un caso che, appena giunta dal marito, egli privi Ada del suo prezioso pianoforte, non comprendendo il significato che ha per lei. L'unico mezzo con cui Ada riesce a "comunicarsi" al mondo è proprio quel piano, e la struggente musica che lei compone è il suo personale linguaggio, l'unico modo in cui riesca a sentirsi partecipe della sua vita. L'unica altra possibilità per esprimersi è la figlia, che però è ancora bloccata dall'infanzia. La liberazione dalla società è un altro tema importante: la passione inizialmente solo fisica vissuta con Baines, un uomo illetterato vissuto coi Maori, si trasforma in un amore liberatorio che diventa per Ada un nuovo modo di affermare sè stessa. Un film che non sarebbe lo stesso senza il decisivo apporto del cast, su tutti Holly Hunter e Anna Paquin, entrambe giustamente ricompensate con l'Oscar. La Hunter incarna Ada, regalando un'interpretazione fatta di microscopici cambiamenti nell'espressione, di piccole variazioni quasi impercettibili, che ci comunicano i pensieri della protagonista. La piccola Anna Paquin, oggi attrice di successo, riesce a controllarsi e a dimostrarsi padrona del suo personaggio: è fantastico vedere come questa figura sia complessa. Molto bravi anche Sam Neill e Harvey Keitel, il primo dona la giusta severità a un uomo convinto di fare del suo meglio, ma incapace di relazionarsi col prossimo, e il secondo riesce a restituire l'apparenza rozza e l'animo sensibile di Baines. Merita particolare attenzione un altro fondamentale protagonista: la colonna sonora di Michael Nyman, forse l'elemento che più contribuisce a elevare il film al rango di capolavoro.